...Stringeva la lettera tra le mani. Ogni tanto abbassava gli occhi e guardava con folle intensità l’inchiostro sbiadito, le sfumature lasciate da una mano sudata sulla carta, le pieghe del foglio e la grafia allungata. Guardava le parole ignorandone volutamente il senso. Aveva letto quelle frasi così tante volte da averle impresse nella retina per sempre.
Quello che gli premeva ora era sentirne il suono, cogliere i tratti della persona al di là del limite fisico della pagina. Voleva guardarlo negli occhi quel dott. Luigi Magenta, voleva sentire il tono delle parole pronunciate dal loro autore, osservarlo e chiedersi se provava vergogna, fatica, rammarico o cieca indifferenza...




Come Fragola e Cioccolato. [ prima parte]

La gonna leggera frusciava veloce al ritmo del passo di lei. Era una gonna di un tessuto sottile, di una trasparenza che lasciava intravedere le curve sinuose del corpo. I disegni pastello ricordavano figure dal significato incerto. Le gambe si muovevano sicure sul terreno accidentato di terra appena arata, ignorando l’impaccio delle pieghe e dei tessuti e dirigendosi scattanti in direzione della collina. Il giorno volgeva al termine ed allungava le ombre degli alberi, annunciando un tramonto arancio e rosso.
La ragazza avanzava a passi lunghi accompagnando il ritmo con il movimento delle braccia. Avanti e indietro, come se solo lo sforzo potesse farla librare fino alla cima, le guance arrossate tradivano accaldamento e strana eccitazione. Gli occhi intensi, d’un blu mare profondo, non perdevano mai di vista la meta per fissare nella mente l’attimo esatto dell’arrivo, tra gli spunzoni taglienti di ciò che restava di un raccolto ricco di spighe di grano.
I polpacci sottili erano ormai rossi di graffi e ferite superficiali, ma sembrava non accorgersene, solo ogni tanto portava una mano alle gambe per scacciare un insetto distratto o un’erbaccia raccolta durante il cammino.
Le braccia stanche di sostenere lo sforzo della salita, si appoggiavano ad una borsa di stoffa chiara che le sbatteva contro il fianco, costringendola a spostarla da una spalla all’altra ad intervalli sempre più frequenti.

I bambini uscirono i fila indiana, una striscia scomposta di stracci e sorrisi sdentati. C’era un uomo sulla cinquantina alle loro spalle, urlava frasi spezzate accompagnandole con gesti bruschi del fucile e con tale improbabile danza teneva a bada il vivo cicaleccio dei ragazzetti. Anna montò il teleobiettivo alla macchina.
Il sole stava calando alle sue spalle, la scena che si apprestava a fotografare era illuminata da un taglio di luce perfetto. Era giunta in cima alla collina appena in tempo per l’ora di chiusura della fabbrica, i bambini stavano per essere trasferiti oltre confine.
Alberto Alvarado era il responsabile dell’ufficio vendite della fabbrica di trattori Zanello per le province di Cordoba e La Pampa, quando l’impero ormai multinazionale dell’impresa era entrato in un processo culminato con la bancarotta.
Dopo gli ultimi scontri sindacali, i dirigenti della Zanello avevano dato attuazione al piano di smembramento dell’attività e trasferito la funzione di produzione e assemblaggio in un territorio meno “incandescente”.
Dopo attente ricerche la scelta era ricaduta su un lembo di terreno al confine tra Argentina e Bolivia, dove vecchi depositi per camion da trasporto erano stati riadattati secondo le esigenze e il nome aziendale era stato prudentemente modificato in Startak & Co. SpA.

A Firenze, dove prima risiedeva la principale sede estera della fabbrica, doveva restare solo un piccolo ufficio per il coordinamento delle vendite e lo smercio dei prodotti e per questo compito cinque dipendenti erano più che sufficienti.
I restanti trecentocinquanta, tra Italia e Argentina, si erano ritrovati da quel preciso istante senza un lavoro, situazione che non aveva fatto altro che inasprire le proteste e i tentativi di sabotaggio dal basso. Documenti che dovevano essere distrutti erano saltati fuori da chissà dove ed eliminare la fonte non avrebbe placato gli spiriti in rivolta di giovani fanatici, pronti a farsi ammazzare in nome di quello che si ostinavano a chiamare ideale.
Lettere di denuncia, licenziamenti e minacce più o meno velate avevano avuto come unico effetto di coalizzare ancora di più  alcuni ex-operai, i quali avevano iniziato a far  circolare volantini sullo “sfruttamento di minori perpetrato dal nuovo capitale a servizio del  dominio delle  multinazionali”. Si era sparsa la  voce che oltreoceano i distaccamenti della fabbrica sfruttavano donne e bambini al posto dell’occidentale proletariato, manodopera a basso costo che non si sognava di protestare né di reclamare la salvaguardia di diritti di cui non conosceva l’esistenza.
La totale assenza di alternative rendeva lecito lo sfruttamento e più che elevati i profitti.

Avvocati e politici, corrotti da anni di arrotondamenti in busta paga, avevano assicurato ai potenti della Startak & Co. che “non esistevano gli estremi per nessun tipo di denuncia”. Elucubrazione giuridica per sottolineare che tutte le prove erano state accuratamente contraffatte e i potenziali sovversivi avvertiti dei rischi del loro farneticare. Ma se qualcuno fosse sfuggito alla loro rete incrociata di bustarelle e minacce?
A questo pensava Alberto Alvarado, con la tracotanza di chi si è unito ad un saccheggio gonfiandosi le tasche per meriti non suoi. Braccio destro dell’amministratore delegato della Startak, nonché uomo fidato addetto alla sicurezza della fabbrica, sapeva che l’unica soluzione per garantirsi sonni tranquilli era eliminare ogni possibile elemento nocivo per la reputazione dell’azienda.
I bambini, contributo silenzioso alla voce “proventi straordinari” del bilancio aziendale, dovevano essere fatti sparire.

Anna non doveva far altro che fornire le prove fisiche della presenza di minori nella fabbrica, primi piani inequivocabili che nessun giornale di uno stato democratico poteva rifiutarsi di pubblicare.
Ai documenti scritti e alle dichiarazioni avrebbero pensato “quelli del gruppo” in Italia, almeno così era stato annotato nelle poche righe della lettera che gli era stata recapitata al mercato dei frutti tre giorni prima. “Trasferiscono i bambini l’8 maggio alle 19.00, è l’ultima occasione che hai per portarci ciò che ti abbiamo chiesto...lavora come sai, al resto pensiamo noi”.
Il resto erano frasi sconnesse e concitate, la calligrafia sembrava spaventata da qualcosa. Anna non aveva capito e non voleva sapere cosa intendesse con “al resto”. Credeva nella causa e si fidava di Mariano e questo le bastava.

Nel costante clima di tensione in cui la situazione internazionale era precipitata con l’inizio della guerra fredda, la parola fiducia era per molti versi priva di logica, segreti e sotterfugi erano la melma quotidiana in cui avvenivano le trattative tra Stati e istituzioni.
Nessuno si aspettava di conoscere la verità, né di sapere da quale parte del muro si trovasse la giustizia. Bisognava scegliere una causa da abbracciare, anche a costo di macchiare col sangue una promessa di libertà.
Ad Anna tutto questo non interessava. Si sentiva distante anni luce dai discorsi sulla lotta tra classi, dalle propagande spregiudicate per la conquista di un seggio più elevato per ottenere il controllo sugli altri.
Era cresciuta in una hacienda nella sterminata campagna argentina col sogno di diventare fotografa, per guardare il mondo attraverso il filtro sottile e colorato della sua macchina fotografica.
Era convinta che il potere, di qualunque tipo, corrompesse anche lo spirito più saldo e l’idea più pura e per questo aveva sempre preferito restare nell’ombra, anche a costo di vedere settimane di sacrifici e fatica passare inosservati a beneficio del profittatore di turno.
Aveva accettato quell’incarico perché c’erano di mezzo dei bambini, perché era stanca di vedere la sua gente soffrire senza poter far niente per alleviarne il dolore e, certo, anche perché era stato Mariano a trasmetterle tutto il fervore necessario per compiere quella che, a conti fatti, sembrava un’inutile pazzia.

Ripassò mentalmente la fragile successione di ragionamenti che l’avevano spinta fino a quel punto. Poi posizionò il teleobiettivo tra l’anima e il mondo esterno, e impresse per sempre nella pellicola il volto bruno e butterato di Alberto Cortés Alvarado, sperando che la sua, di verità, non avrebbe fatto troppa paura a coloro a cui avrebbe chiesto di divulgarla.

L'ANGOLO DI LETIZIA - a cura di portorecanatesi.it