Ma Obama non ci salverà se non cambiamo davvero la nostra cultura politica.

| di Donato CAPORALINI | inserito il 28/11/2008 | Stampa


e replico all'intervento di Emilio Pierini, “Se altrove vince Obama” non è «per fatto personale», ma perché le tesi che vi sono esposte mi danno l'occasione di esprimere alcuni convincimenti di carattere generale sulle dinamiche della vita politica nel nostro paese (e non mi riferisco soltanto a Porto Recanati)
Emilio Pierini, che non ho il piacere di conoscere, si domanda quale sia l'errore del centrosinistra che provoca la disaffezione dei giovani verso la politica e, in particolare, la loro assenza alle iniziative organizzate per le primarie. Pierini si risponde sostenendo, in soldoni, che ciò dipende dal riproporsi di una classe dirigente vecchia che non lascia spazio, come invece è avvenuto negli stati Uniti con Obama, ai giovani che rappresentano il “nuovo”; quel “nuovo” che non può essere discriminato sulla base di considerazioni quali la mancanza di esperienza, ecc. perché altrimenti dove sarebbe andato a finire Obama?
Mi dispiace, ma non sono affatto d'accordo con lui. E non solo per l'ovvia ragione che se tutto dipendesse, come scrive lui, dalla ostinata volontà di rimanere in campo di uomini vecchi come me e i miei sostenitori, allora nel resto dell'Italia dovremmo assistere ad un accorrere dei giovani alla militanza nel PD e negli altri partiti del centrosinistra. Ma così non è, a conferma del provincialismo con cui ragiona Pierini.

«Nuovismo» e crisi della cultura politica.
Io credo, invece, che la disaffezione dei giovani dipenda dalla crisi delle culture politiche (quelle ambientalista, del solidarismo cattolico, comunista, socialista, democratico-progressista) che avrebbero dovuto convergere in un progetto alternativo a quello della destra, e che purtroppo sono precipitate in una condizione di disorientamento e afasia, che ha favorito l'affermarsi dell'egemonia culturale della destra.
Quando parlo di culture politiche intendo, vorrei precisarlo, non solo un insieme di teorie, ma una organizzazione collettiva capace di assolvere sia la funzione di elaborazione e divulgazione di categorie capaci di “leggere” la realtà sociale, sia quella di operare collettivamente nel tessuto sociale e culturale.

Una cultura politica è una rete, un network, che trae dalla sua stessa prassi politica un linguaggio e una cultura; e che poi ritrasforma quella cultura in prassi. Insomma una cultura politica è una forza collettiva organizzata.
Questa forza, che è esistita nel nostro paese, è ora in larga misura dispersa. E' a questa crisi che si deve la difficoltà del centrosinistra di parlare ai giovani (ma lo stesso si può dire per il rapporto con il lavoratori, come hanno purtroppo dimostrato le elezioni politiche del 2008).
La retorica del “nuovo” (di cui l'esaltazione della estraneità dalla militanza politica come valore in sé rappresenta una delle forme più caratteristiche e imbarazzanti) è essa stessa una manifestazione della decomposizione delle culture politiche progressiste e può essere considerata una componente della retorica antipolitica presente nel discorso pubblico sia a destra che a sinistra.
La retorica dell'antipolitica e «del nuovo che avanza», ha storicamente preparato il senso comune sul quale ha costruito la sua fortuna l'antipolitico per eccellenza (Berlusconi); ma ciò sembra non abbia insegnato nulla.

Il “nuovo” di per sé, infatti, non è né di destra né di sinistra; anzi, nell'attuale fase, la denigrazione della storia e delle culture progressiste e la disgregazione dei soggetti sociali collettivi finiscono per favorire il sovversivismo populista che si presenta come la risposta più efficace alla crisi delle culture politiche democratiche, rappresentate come antiquate e sconfitte dalla storia.
Il discorso di Emilio Pierini è in questo senso, l'espressione di una posizione culturalmente subalterna, che amplifica i fattori della crisi della sinistra, limitandosi a riprodurre le parole d'ordine del «nuovo che avanza», della «discontinuità» necessaria tra «vecchio» e «nuovo», ma non riesce a esprimere un solo contenuto originale e a dar vita ad una sola proposta che sappia parlare alla società nel suo insieme.
E ricorrere a Obama per farne un nuovo mito non serve a niente.

Promuovere il rinnovamento.
Ma il rinnovamento della politica, nei contenuti, nelle forme e nel personale, è una necessità e un dovere.
Tuttavia dobbiamo domandarci, che cos'è il rinnovamento e come si promuove? Per essere «nuovi» basta essersi dedicati ai fatti propri e non aver mai svolto attività politica? A questo punto è arrivato il discredito della politica negli stessi partiti?
Io vengo da una tradizione, quella del Partito Comunista Italiano, che del rinnovamento ha fatto una pratica politica costante. Alla necessità di promuovere un costante rinnovamento dei suoi dirigenti era rivolta la cosiddetta «politica dei quadri», che consisteva nell'inserire in responsabilità di direzione sempre più impegnative i quadri più promettenti, sperimentandone le capacità e i limiti, correggendone i difetti (anche in modo severo), sostenendone le qualità.
I quadri da promuovere si cercavano nelle organizzazioni di massa, nei movimenti, nelle associazioni, oltre che tra i militanti del partito.
Insomma, i nuovi dirigenti dovevano essere espressione di esperienze vitali, di pratiche politiche, di culture in trasformazione. E' anche così che il Pci è riuscito metabolizzare i cambiamenti culturali e le nuove sensibilità che nascevano dal movimento degli studenti o dalle lotte sindacali e sociali.

Non ho conoscenza sufficiente degli altri partiti, ma penso che anche lì vi fossero meccanismi analoghi, almeno fino ad un certo momento della loro storia.
Io stesso sono stato parte di questa pratica. Quando a diciotto anni ho preso la mia prima tessera della Federazione Giovanile Comunista (il cui segretario nazionale era Massimo D'Alema, evidentemente un altro vecchio da accantonare!), venivo dalla esperienza del movimento degli studenti.
I Compagni che mi hanno avvicinato e coinvolto sapevano che ero presidente della Assemblea studentesca della mia scuola e che svolgevo un ruolo nel movimento anconetano.
Il mio non è un caso isolato: molti dei quadri del Pci vengono da esperienze simili. Insieme ad altri giovani abbiamo iniziato la militanza politica studiando I Quaderni del carcere di Gramsci e La Storia del Pci di Spriano. Poi abbiamo fatto le nostre esperienze nel partito e nella vita amministrativa. Io, forse, sono stato più fortunato di altri, perché ho avuto dei grandi maestri che mi hanno anche onorato della loro amicizia, senza lesinarmi rimproveri e correzioni.
Ho imparato tanto da loro sul piano politico e umano. Ma, ripeto, la mia è la storia di tanti, perché il rinnovamento era una preoccupazione costante e una pratica continua.
Non mi vergogno affatto di questa storia (e quando Pierini scrive di un losco territorio della politica e di piccoli affari da proteggere, dimostra soltanto il risentimento qualunquista di chi, essendo estraneo ai valori della militanza politica e civile, per pregiudizio o malafede non rinuncia a fare la sua piccola maldicenza gratuita), così come non ritengo che da sola essa mi dia diritto a svolgere ancora un ruolo dirigente.
Tanto è vero che ho affrontato le primarie mettendo in conto la sconfitta.

La formula che esprimeva l'ispirazione di quella politica nel Pci era ”rinnovamento nella continuità”.
Essa è superata e inattuale? Forse, anzi lo è senz'altro. Ma cosa c'è al suo posto? A me pare che il più delle volte ci si trovi di fronte a invenzioni e improvvisazioni, che corrispondono più alla disperata esigenza di far fronte alla crisi della militanza e della cultura politica che non ad un disegno avveduto.
Quando non c'è di peggio. Mi riferisco all'uso strumentale della parola d'ordine del rinnovamento, brandita come una clava nella lotta politica interna per aver ragione degli avversari. E' singolare, infatti, che mentre si proclama ad ogni piè sospinto l'esigenza di aprire alla società civile(?) e al rinnovamento, tutte le indagini di sociologia della politica attestano il consolidarsi di gruppi oligarchici sempre più inamovibili e autoreferenziali.
Cosa vorrà dire?

Continua...


Donato Caporalini

Argomenti correlati:
Se altrove vanno a fare altro
Ma Obama non ci salverà se...
Se altrove vince Obama
| inserito il 28/11/2008 | Stampa