La donna ha cinquant’anni e una ruga sfacciata sulla fronte proprio nel punto in cui indugia più spesso il pensiero. Che forma hanno le sue mani dipende dal tempo e dall’umore, guantate e morbide sotto strati di lana, gelide e macchiate di rosso dopo la neve, sicure e veloci trai i  plichi e le scartoffie della propria professione. Dita nodose e corte, unghie morsicchiatte alle estremità, l’aprirsi scattoso ed elegante del palmo quando deve dare un’indicazione o spiegare un’idea, tutto questo ondeggiare e rifuggire insieme come una danza voluta per distogliere l’osservatore dal vero centro dello spettacolo, gli occhi. Il suo sguardo è di quelli che sembrano andare dritti e decisi verso qualche luogo, quando in realtà non ha destinazione, tutto concentrato nelle profondità di un ragionamento interiore. Una di quelle che negli ultimi tempi hanno costruito barricate così alte che nessuno è più riuscito ad entrare, si guarda allo specchio ma non in funzione del presente, come protesa verso qualcosa che deve realizzarsi, ancora imprecisi e inattesi i contorni. Osserva e aspetta, a volte con rabbia a volte con infinita passione, ma soprattutto con l’abbandono di chi ha ormai rinunciato da tempo a ricercare una qualsiasi spiegazione.




Favole a metà

Dicono che l’aspetto peggiore di vivere in questo paese sia la bassa pressione, ha effetti deleteri sull’umore e sull’efficienza degli individui, li priva del loro slancio vitale, li intossica con fumi nocivi che non potendo disperdersi  restano sospesi nell’aria proprio all’altezza delle narici. Cielo basso, colori grigi, scarso rendimento, professionale e affettivo, aumento del salario di psicoterapeuti, psicanalisti, artisti marziali e cultori di mistiche orientali. Non dipende da me quindi, non sto vivendo in uno stato di perenne incoscienza, né i miei neuroni hanno perduto parte della loro scattante giovinezza. Se mi ritrovo nello stesso ufficio da trent’anni e ancora non ho capito lo scopo del mio restare, la spiegazione non va ricercata nella mia scarsa propensione agli stimoli esterni, ma solo e semplicemente nelle peculiari condizioni atmosferiche dello spazio che mi circonda.
Mi alzo ogni mattina facendo il conto mentale dei giorni che mi separano dalla fine di questo supplizio, ma non è colpa mia, non é colpa mia, lo ripeto allo specchio, agli amici, alla coscienza quando il circolo vizioso dello scarica-responsabilità diventa linea retta, segmento e infine punto, luogo geometrico in cui l’infinito si dà una forma modesta e rotonda, nascondendo alla vista il baratro delle sue strabilianti profonditàLa fretta degli altri mi infastidisce perché non è mai proporzionale alla mia, mi chiedo come debbano sentirsi i personaggi anonimi che popolano gli uffici del piano di sopra, quelli a cui affibbio la colpa di uno spreco che é anche mio, quelli che leggono il giornale mentre sorseggiano un caffè che é sempre fuori orario, che incrociano le gambe sullo spigolo del tavolo e facendo dondolare la sedia sulle due gambe di dietro elaborano i piani geniali che faranno vincere al prescelto le prossime elezioni. E io che interpretavo quella posa come mancanza di rispetto,  maldisposizione al lavoro e cieca indifferenza per la propria professione.

Chiunque ha bisogno di uno scopo, anche piccolo e umile, per trovare un posto e convincersi di offrire un indispensabile contributo alla causa comune. E chi non ha gli strumenti per inventarselo dovrebbe essere aiutato, condotto per mano verso la scatola ordinata delle proprie quotidiane responsabilità. Significa incanalare l’istinto alla rivolta contenuto potenzialmente in ogni individuo sottoposto allo stress dell’inutilità. Ma quando entrano in circolo tempo, risorse, interessi più o meno vitali, il giro non compie un cerchio, l’energia si disperde come un’eco di lontana saggezza, che per caso o per distrazione non ha trovato un muro umano sul quale rimbalzare.O forse tutto é indefinito, non esistono leggi, il mondo é indeterminatezza e se vogliamo dargli un ordine, qualunque, dobbiamo ricercarlo in noi stessi in un atto di eroica iniziativa personale.
Crediamo che ci sia sempre data una scelta, che il nostro ufficio incubatrice sia solo un passaggio verso un universo più elevato, in cui i nostri occhi si apriranno e scopriremo infine il volto delle capacità inespresse con cui incidere la nostra indiscutibile firma nella storia.
Eppure tanti rimangono fermi, altrettanti una volta agganciato il primo isolotto disponibile non hanno più nessuna intenzione di mollarlo per riguadagnare il mare.
Dopo tanti anni passati in silenzio ad osservare, assentire, ossequiare, credo di aver capito quale sia il prodotto finito che esce ogni giorno da queste mura: parole.
Certo, parole rivestite degli abiti migliori, affinate e arrotondate con l’arte suprema della diplomazia e del dialogo, del do ut des quotidiano tra uomini di mondo e uomini di potere.  Ecco, in tutto questo parlare ho perso il senso della mia presenza qui, l’utilità marginale delle mie parole, poche e poco chiare, sommate a tutte le altre, tante, troppe già dette e ancora da dire.

Per sentirsi utili bisognerebbe avere un’idea geniale, svegliarsi in una mattina di sole con in mente una combinazione di parole inaudita che sblocchi una situazione in fase di stallo, che faccia luccicare d’invidia e ammirazione- meglio la seconda che la prima, ma in ambienti del genere é comunque meglio procurarsi un vaccino potente per entrambe-  negli occhi dei colleghi, conoscenti, superiori. Per trovare pace nella scoperta parziale della propria natura e delle proprie inclinazioni, la casellina comoda e rassicurante sulla quale appiccicare orgogliosa l’etichetta di una competenza che mi caratterizzi e, nel darmi una forma compiuta, mi salvi dalla landa popolata della meschina mediocrità.
Perché a volte ho l’impressione che mi passino accanto come si fa quando si incrocia il vuoto e le conversazioni sono ordini impartiti senza possibilità di replica o obiezione, perché bisogna avere un titolo per giudicare il mondo e la cornice argentata appesa alla parete di ogni loculo lo dice a chiare lettere, Dottore.
L’esperienza accumulata in tanti anni di scrupoloso servizio è un bonus valido per la pensione, che se uno prova a ritagliarsi autonomia d’azione nel suo mestiere i colpi arrivano silenziosi e precisi, a ricordare che l’orgoglio e la stima per se stessi è un privilegio raro che solo pochi eletti hanno il diritto di salvaguardare.
Ma forse anche tutta questa ingenua confusione tra posizione e valore è il risultato schizofrenico delle teorie sulla bassa pressione.
A questo punto l’alternativa è tornare bambina, calzettoni fino al ginocchio anche d’inverno come facevano i ragazzi, perché anch’io ero forte e fiera come loro, come mio padre. Infilare la maglia nuova la domenica mattina con l’odore del cibo da festa e il raggio di sole che entra e ti fa credere che sei felice e la vita è piena di sarò.
E dire sempre ad alta voce quello che penso e farlo con rabbia e con passione, che esistere abbia un senso e sia fatto di opinioni. Rivivere i discorsi importanti e le discussioni infinite su come rendere il mondo un posto migliore, sentirsi utopici e sognatori quando l’utopia è semplice e il sogno possibile, ancora. E ridere e piangere, smettere di mangiare e tornare a ridere ancora, perché l’esistenza è un cerchio e tutto inizia e finisce intorno ad un amore importante, un amore per sempre.

Il mondo era grande e io ero bambina, quello era l’unico modo che sapevo di prendere le cose più alla leggera. Ora mi insegnano che l’obiettività sta nel mezzo, che bisogna parlare a bassa voce e che il mondo cambia continuamente, ma da solo e a suo piacimento. Mi dicono che siamo solo granelli di sabbia sballottati qua e là da misteri troppo grandi  per poterne intravedere anche solo il senso, che siamo fatti di carne e d’istinto e l’amore è solo un palliativo alla nostra inevitabile, struggente solitudine.
Un balsamo o una droga. O un pacato compromesso con la nostra follia.
Questo è il modo che mi insegnano oggi di prendere la cose più alla leggera.Mezzo secolo di vita, dovrei tirare le somme, accettare infine le abitudini sicure e tenaci, l’apatia molle di giornate interminabili, la schiera dei rimpianti che affolla le mie stanze, i libri, i ricordi e dire addio senza rancore, né commozione, alla fanciullesca fiducia nella minuscola verità contenuta nelle favole. Come un passo coraggioso e umile verso una definitiva maturitàCome una completezza arida che accetta come tragedia  inevitabile che la dignità di un uomo possa venire calpestata e offesa solo da un altro uomo. E che mette in conto che il principe possa anche sbagliare strada e dimenticare le proprie promesse di eternità tra le curve panciute di una generosa contadina.
Che la principessa smetta allora di sognare e aspettare e inizi finalmente a vivere.
La verità piccola delle favole.

L'ANGOLO DI LETIZIA - a cura di portorecanatesi.it