47 - Pensieri rapsodici.
di Aurelio BUFALARI | pubblicato 18 dicembre 2004 | Stampa
L’aristocrazia
Giorni fa, mi trovavo all’interno di una proprietà privata – un terreno agricolo, per intenderci – non per scarso senso dello privacy bensì soltanto perché non era ben in vista il cartello che ne indicava lo status. Il proprietario – un “aristocratico”, a mia opinione – mi ha invitato con un gesto di quasi disprezzo, nonostante gli avessi offerto le mie scuse, ad uscire dal suo territorio perché, ha detto, “noi amiamo la riservatezza”. Naturalmente – a denti stretti – ho eseguito gli “ordini”, ma il “modo ancor m’offende”. Anch’io amo la riservatezza, ma non la mancanza di cortesia.
Evidentemente questi beneficiati dalla storia conoscono la cortesia soltanto nei rapporti reciproci: un atto formale, tutt’al più, perché cortesi lo si è o non lo si è, a prescindere da chi si ha davanti. Questo spiacevole episodio mi ha fatto ritornare in mente – e non ci voleva molto – una mia vecchia riflessione politico filosofica – che niente ha a che fare con questa vicenda –: la proprietà privata dei suoli può essere considerata legittima? Dal punto di vista speculativo, non lo è. E qui mi fermo perché l’argomento richiederebbe un ben più ponderoso e ponderato ragionamento.

L’embrione
Dice, l’embrione è da considerarsi a tutti gli effetti un essere umano perché lo è già in potenza. Questa idea della potenza risale ad Aristotele e dice che tutto ciò che è in atto – cioè attualmente presente – lo fu già in potenza. In effetti, niente e nessuno può diventare qualcosa che non sia nelle sue potenzialità. Un seme, ad esempio, può diventare mela se ha in potenza di diventarlo, perché se ha in potenza di diventare pesca, tale sarà. In altre parole, il seme di mela diventerà mela e quello di pesca, pesca. Così l’embrione umano è in atto un embrione, ma in potenza, dice, è un uomo.
Partendo dal suo essere in potenza, infatti, l’embrione diventerà prima feto e poi essere umano. Ma non tutto ciò che è potenza diverrà necessariamente atto – lo dice lo stesso Aristotele – : un seme, ad esempio, potrebbe non diventare mai un frutto, ma restare quello che è. Ne consegue che sopprimere un embrione non è come sopprimere un essere umano, come distruggere un seme non equivale a distruggere una mela. Ed il ragionamento è giusto.
Così intese dire in un criticatissimo scritto sul Corriere della Sera Emanuele Severino, ma i suoi critici hanno voluto deliberatamente fraintendere il suo discorso. Per conto mio vado ancora più a fondo: il fatto che l’embrione sia in potenza un uomo, non significa che questo sarà il termine della sua corsa, perché oltre l’uomo c’è la morte dell’uomo, la quale comporta che pulvis eris et pulvis fueris, cioè chimica.
Allora, la fine dell’embrione – realtà biologica – sarà infine in atto ciò che è in potenza, cioè chimica. Se non vogliamo trarre dalla teleologia una conclusione così devastante, dobbiamo fermarci molto prima: quando sopprimiamo un embrione, non sopprimiamo né un uomo né un miscuglio chimico, bensì un semplice embrione, il quale è tale in atto, e soltanto ciò che è in atto è realtà.

Il doping
Il doping sportivo è una piaga che non ha tendenza ad asciugarsi e rimarginarsi. Allora, invece di impostare tutto il discorso di contenimento e repressione del fenomeno esclusivamente sull’iniziativa dei controllori, perché non si prova a partire dall’iniziativa dei controllati?
Innanzitutto riconoscendoli soggetto di responsabilità individuale, che non è, si badi bene, un semplice criterio di imputazione della colpa, bensì anche un principio che riconosce ad ognuno la coscienza esclusiva del proprio interesse individuale, e quindi la liceità di approntare i mezzi ritenuti più idonei per realizzare quell’interesse – sempre che non si leda il diritto altrui.
Ad esempio nel ciclismo, non si potrebbe lasciar libero ognuno di assumere le sostanze che vuole?
Le autorità federali, previa legge del parlamento, potrebbero a loro volta approntare delle norme da osservare, senza proibire niente a nessuno in quanto ad assunzione di sostanze chimiche e farmaceutiche. Un regolamento che definisca tre tipi di sostanze possibili, ognuna etichettata con un proprio colore: ticket rosso per quelle dopanti; ticket giallo per quelle pericolose; ticket verde per quelle innocue o per nessuna sostanza. Che dica che ognuno può assumere ciò che vuole, ma prima di ogni gara dovrà produrre un’autocertificazione circa il suo ticket.

A fine gara, poi, chi avrà vinto manterrà il titolo indipendentemente dal proprio ticket, ma vedrà pubblicamente riferita dagli organizzatori la sua etichettatura: rossa o gialla o verde. Capirete già i riflessi morali che una tale qualifica, ammesso che non sia verde, produrrà nel pubblico.
Si dirà però, che qualcuno potrebbe certificare il falso assegnandosi l’etichetta verde prima della gara, mentre invece ne ha una rossa.
Bene, i controlli ci saranno comunque e chi avrà dichiarato il falso, oltre ad essere tolto dall’ordine di arrivo, incorrerà nei rigori della legge per falsa certificazione, con tanto di condanna penale.
Chi oserà fare il furbo?

di Aurelio Bufalari | pubblicato 18 dicembre 2004 | Stampa