L'Attualità di De Cubertin.

di Aurelio BUFALARI

 

“L’importante non è vincere ma partecipare”. Una massima largamente fuori moda nell’Italia guicciardiniana. Il “buon” Niccolò Machiavelli limitava ai soli mezzi la spregiudicatezza dell’agire secondo scopi e non raggiunse mai l’impudenza pragmatica del suo gemello Guicciardini, il quale metteva ben in guardia dal venirsi stupidamente a  trovare nel campo dei perdenti. Quell’assunzione di responsabilità che pur suggeriva di non disdegnare mezzi estremi pur di conseguire il risultato agognato e che aveva per scopo quello di riscattare una patria ridotta a brandelli da lotte intestine  – non dimentichiamo infatti che Machiavelli parlava di prassi politica – venne mortificato dalla spinta all’intrallazzo e persino al volta gabbanismo guicciardiniano: il coraggio di agire ad ogni costo –  Machiavelli suggeriva di essere sì volpe, ma anche leone – venne ridicolizzato dal suo contro valore, sfuggente ad ogni confronto e disertore del rischio. Nessuno dei due, in termini sportivi, ce la raccontava giusta, ma mentre Machiavelli pensava più al “chi” dell’uomo, Guicciardini pensava al “che cosa”.

 Da qui nacque l’esaltazione della “mentalità vincente”, così troppo spesso evocata negli sproloqui dei nostri “attori” sportivi. Essa infatti è altro dal “temperamento vincente” che non lascia rassegnati alla sconfitta persino in situazioni disperate perché la forza d’animo può, a volte, produrre miracoli insperati. Dare tutto di sé, lealmente e indipendentemente dal risultato, è la dimensione morale dello sport. La mentalità vincente implica invece un calcolo spregiudicato che prevede persino la slealtà e la truffa pur di ottenere la vittoria o, una volta preso atto che questa sta irrimediabilmente sfuggendo, l’abbandono della contesa.

 Ritornando alla massima iniziale, che sia più importante partecipare che vincere è confermato dalla stessa pratica dello sport, la quale non sarebbe possibile se non ci fosse oltre al vincitore anche uno sconfitto. E tutti quei perdenti, che sono legione, che fine dovrebbero fare? Tanti sanno che non vinceranno mai, ma pur tuttavia sono regolarmente ai nastri di partenza. E con chi si gareggerebbe se non ci fossero atleti che accettano anche la sconfitta? Se andiamo alla spontaneità del gioco, ci accorgiamo della conferma dell’importanza del partecipare perché i ragazzi, non ancora intristiti dal calcolo e dalla spregiudicatezza della mentalità vincente – senza tirare in ballo la squallida pretesa di essere “legibus soluti” in quanto atleti professionisti – dimostrano di essere sempre pronti a gareggiare pur in presenza di sconfitte a ripetizione. Qualcuno che ha la mia età ricorderà le sfide sui campetti ricavati in ogni qualsiasi spiazzo del paese che si protraevano, di partita in partita, dal primo pomeriggio all’ora di cena: 10 a 8, poi ancora 10 a 5 e poi... avanti ancora, di sconfitta in sconfitta, fino all’esaurimento del tempo senza mai, nemmeno per un istante, pensare di abdicare per spossatezza morale. Finita una sfida, via con un’altra perché l’importante era partecipare e non vincere.

Questo del partecipare dunque è il “primum movens” del gioco giovanile e dello sport in generale, e chiunque pensasse di tradire l’animo di un giovane togliendogli il gusto del gioco e della competizione commetterebbe un delitto contro l’umanità perché i piaceri più genuini di ogni uomo restano ancora e sempre il conoscere ed il giocare. Tutto quello che entra più tardi nella mente di certi giovani, magari per opera di cattivi maestri, è solo un malefico artificio psicologico che sfocia nell’immoralismo anti sportivo. Idealismo? No! pragmatismo, e vediamo il perché.

Naturalmente penso di rivolgermi ad una collettività matura che è in grado di capire quale sia il suo proprio interesse. Quando l’importante è solo vincere, come purtroppo è nel costume italiano, è naturale che le maggiori energie organizzative vengono spese per agevolare atleti di alto livello, con relativi investimenti economici che sfiorano l’assurdo. Chi può affermare il contrario? Qualcuno potrebbe pensare che un simile atteggiamento dei responsabili dello sport nazionale è del tutto comprensibile, ma io dico che non lo è perché in tal modo vengono lasciate allo sport di base soltanto le briciole. Tutti conosciamo la carenza di strutture sportive che mortifica gran parte della gioventù del nostro Paese, e tutti vorremmo invece avere a disposizione per nostri ragazzi campi sportivi, piste e palestre per l’esercizio fisico e mentale che dovrebbe consegnarci una gioventù più sana e più bella. Un popolo di atleti dunque e non uno sparuto “gotha” di medaglie d’oro.

Clamorosa fu qualche anno fa la decisione dei nostri dirigenti dello sci alpino di far rientrare anzitempo da una trasferta americana di inizio stagione per la coppa del mondo le atlete dello sci femminile per mancanza di risultati: chi voleva restare a gareggiare doveva farlo a proprie spese. Ecco un bell’esempio di mentalità vincente. L’esempio al contrario ce lo danno i nordici con il loro diffusissimo sport di massa che non sempre  produce vittorie per il fatuo orgoglio nazionale, ma certamente forma giovanotti che suscitano ammirazione e invidia solo a guardarli. Sembrano tutti eguali, è vero, ma in alto. Qui da noi, per far vincere l’ultima medaglia possibile a Tomba – poi andò a finire che non vinse niente – si bloccò per varie settimane addirittura una stazione sciistica – Corno alle Scale – super attrezzandola di strumenti della più alta tecnologia cibernetica per consentire al nostro di avere tutti i parametri tecnico sportivi che avrebbero dovuto favorirne scientificamente la vittoria, e per giustificare magari un malcostume – parole dell’ex Presidente del CONI Mario Pescante – che invece avrebbe dovuto essere liquidato al più presto. Costò un occhio della testa, e per un solo atleta, lasciando invece lo sport di base senza strutture e senza finanziamenti.

Questa, purtroppo, è la mentalità italiana, che per falsificare lo status di atleti, che di fatto sono iper professionisti, li si fa gareggiare sotto le insegne dei Corpi dello Stato – Fiamme Gialle, Fiamme oro, Carabinieri, Corpo Forestale e via elencando – come se non esistessero società sportive e basta. Anche noi, nel nostro piccolo, ci adattiamo a questo malcostume, tant’è che nelle varie cerimonie a carattere sportivo andiamo celebrando sempre, e con mortale monotonia, quelli che in qualche modo hanno vinto qualcosa e non pensiamo mai di rendere giustizia a chi invece lavora quasi nell’ombra regalando ai nostri giovani benefici che nessuna medaglia d’oro potrebbe dare. Una volta sarebbe il caso di celebrare quelli che... “l’importante è partecipare, non vincere”.

Volete figli belli e in salute? Ridate a De Coubertin il posto che gli spetta perché la sua attualità è eternamente fuori discussione – in ambito sportivo, si intende.         

 

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