Pensieri dull'Honduras.
Lunedì 17 Maggio l’Honduras ha attraversato l’Europa con la rapidità consueta dei notiziari dell’ora di pranzo. A poco più di un anno di distanza dall’ultima carneficina in una carcere hondureña, 104 detenuti di uno dei penitenziari più grandi del paese sono morti asfissiati in un incendio notturno, di cui ancora non si conoscono le cause. Il principale giornale locale, El Heraldo, ha riportato in prima pagina immagini di 104 corpi nudi martoriati dalle fiamme e dal fumo, su uno sfondo dantesco di agghiacciante indifferenza. Nonostante la parzialità imposta dalla corruzione dei finanziamenti di partito, tra le righe dell’articolo apparso nell’edizione speciale del quotidiano serpeggia il sospetto che si sia trattato di un tentativo ben riuscito di pulizia sociale.




Honduras ancora qui.

Un lunedì di otto mesi fa ho chiuso la porta di casa con le stesse valigie di sempre e una serie imprecisata di inquietudini nel cuore. L’unico modo per capire dove stavo andando è stato sfogliare velocemente l’atlante geografico fino alla pagina delle Americhe, scorrere col dito lungo la linea immaginaria dei confini nord Americani, superare il Messico, attraversare il Guatemala e lì, prima di scendere a capofitto verso Panama, fermarsi ad osservare l’insieme di verde e marrone, bagnato dagli oceani ad Ovest e ad Est. Fermarsi ed immaginare di essere già in Honduras.

Honduras significa profondità, nome acquisito all’epoca dell’approdo di Cristoforo Colombo, quando la scoperta ha decretato l’ingresso del Centro America nel mondo conosciuto.
Della profondità l’Honduras ha il silenzio prolungato e l’intrecciarsi di paesaggi inattesi, giungla e terreni quasi desertici, acque e montagne aguzze che convivono in linee alternate, interrotte solo dal confine col mare. La prima sensazione che ho avuto atterrando nella capitale, Tegucigalpa, è stata l’attesa. Bevevo con gli occhi il paesaggio circostante, ascoltavo la musica e i racconti della gente del posto, cercando di liberarmi delle aspettative e fantasie costruite negli anni sui colori e sul calore dei Carabi. Aspettavo che la meraviglia si mostrasse ai miei occhi come una rivelazione e mi permettesse finalmente di raccontare questo posto e i suoi segreti, di spiegare a chi è rimasto lontano questa parte di storia.
Ho la sensazione di aver passato mesi trattenendo il respiro. Non basta dire povertà per capirne il senso, a volte ci indigniamo per la mancanza di comodità e diritti che sembrano indispensabili, senza pensare che non tutti li considerano tali. Le priorità sono una questione di preferenze.

Quest’anno il presidente ha promosso la campagna “telefono per tutti”. La maggior parte delle case non ha acqua potabile, luce elettrica, pavimenti di piastrelle. La maggior parte delle famiglie è composta da madri sole e da almeno cinque figli, ognuno con un cognome diverso ma con in comune la stessa stanza, che funge da cucina, sala, camera da letto insieme. I livelli educativi sono tra i più bassi di tutta la regione, le donne sono ancora fortemente marginate in una situazione di inferiorità da un machismo; imperante, i bambini preferiscono la strada a un ambiente domestico che non li protegge da diventare adulti troppo in fretta.

A distanza di tempo, mi chiedo fino a che punto il mio lavoro mi consenta di descrivere l’Honduras e capire la sua gente, nei tratti e nei bisogni. Pochissimi conoscono questo angolo di mondo, visti alla luce di indici di sviluppo i paesi meno avanzati si assomigliano tutti, prevale l’impressione di sconcerto e di un disordine quasi artificiale. Dicendo povertà non si colgono i dettagli.E i dettagli dell’Honduras sono fatti di strade strette e piene di buche, d’aria inquinata che sa di pietra e terra appena ti allontani dalla capitale.

Aria di tortillas, di biscotti e pane, aria di forno e fuoco, di carne; e brodo, di arance acerbe e papaia matura.
L’orizzonte è breve, coperto da una natura arruffata e sempreverde. L’arrivo della notte sorprende, come il giorno breve del tropico, senza stupire con struggenti tramonti, solo il fugace addio della luce che si spegne e sulla costa, fisso e insistente, lo sciacquio arrabbiato dell’oceano.
Anche Tegucigalpa, la capitale, è incomprensibile dalla distanza. Quello che la rende viva sono squarci di mercato, frammenti di conversazione, spazi ristretti attorno ad un vicolo, ad un volto.
Tegucigalpa ha tetti piatti, sfumature di colori eccentrici nei quartieri più ricchi, rosa e grigi di lamiera nelle zone marginali. Di giorno è una distesa interminabile di cemento sovrapposto, anche dall’alto si fatica a scorgere pezzi di strada, frammenti di verde o blu, il fiume è verdastro per la maggior parte dell’annoLa città si estende sinuosa fra colline e montagne basse e nelle giornate di vento i suoni dei mercati e i clacson dei taxi vengono trasportati ovunque, forti e vicini da qualsiasi punto d’osservazione.
Il traffico è lento e impazzito, i semafori dondolano agli incroci e quando tira vento è difficile capire in che direzione si è autorizzati a voltare. I cigli delle strade sono il regno dei venditori ambulanti e degli straccioni, dei militari in tuta mimetica e fucile a tracolla e delle venditrici di tortillas.

La mattina i poliziotti dirigono il traffico in giubbotto antiproiettile e i giornali locali hanno un certo gusto del macabro per le foto di prima pagina. I mercati sono vocianti e colorati di frutta tropicale e verdure impronunciabili, per  i carichi più pesanti si possono affittare carrette di legno trascinate da bambini.
La musica è ovunque e il cinema principalmente Holliwoodiano, l’influenza nord americana marca ogni aspetto della società.
I centri commerciali sono il cuore pulsante della città. Quello che a Bruxelles erano parchi profumati qui sono vetrine luccicanti, caffè americani, cinema multisala.
Non si tratta di un centro d’affari, la gente non entra, solo passeggia, come se anche per guardare fosse necessario pagare qualcosa. I negozi sono ridotti e austeri, grandi spazi e luci bianchissime per illuminare una fila scarna di capi inutilmente costosi, troppe commesse rispetto ai clienti da gestire. La gente intanto continua a passeggiare e a considerare la sua piazza questo edificio, sfacciato rispetto alla realtà che aspetta fuori.
Solo dall’alto si percepisce la stridente contraddizione del paesaggio: Tegucigalpa è una baraccopoli immensa punteggiata da residenze lussuose, protette come roccaforti dalla miseria dell’intorno.
Gli uomini si trascinano in conversazioni strascicate, le donne hanno lo sguardo spento e i bambini attaccati alle sottane, i vecchi aspettano chissà cosa sulla porta di casa e agli incroci delle vie del centro.
A volte mi fermo e vorrei sentirli gridare, un grido liberatorio di ribellione. Invece la vita qui è fatalismo e attesa, questa gente non sembra volere né conoscere l’azione, la lotta. Da dove iniziare?

Solo un’insignificante minoranza sa di avere dei diritti, i codici non scritti dicono che se se la famiglia ha bisogno, anche un bambino di cinque anni è in dovere di lavorare, le donne devono occuparsi della casa e gli uomini di spargere il seme. I politici sono ancora corrotti e ogni elezione decreta la sostituzione di tutti i funzionari pubblici con i nipoti e amici del nuovo regime, eppure si parla di democrazia.
Il calcio è lo sport nazionale e ad ogni partita lo stadio si riempie di urla ed emozioni. La domenica non esistono urgenze umanitarie, i bambini riescono a trasformare una lattina di coca cola in un pallone.
Forse è solo una diversa concezione del tempo, della necessità.

In Honduras si vivono i tempi presenti, fatti di qui e ora, di lotte e pigrizie quotidiane. Un misto di indolenza e ironia. Giovedì scorso lo sciopero dei tassisti ha paralizzato la città e riempito le strade di gente.
Nessuno cammina mai a piedi a Tegucigalpa, il taxi è il mezzo più economico e l’elemento pittoresco del paesaggio. Protestavano per l’aumento della benzina e mi sono trovata immobilizzata tra un autobus giallo fatiscente e le bancarelle della frutta sul ciglio della strada. Gli ananas in alto, le angurie e i manghi in basso, bestemmie in un dialetto masticato e clacson isterici da contorno.
Sulla destra mi ha sorpassato e un taxi giallo e nero, di quelli che hanno rinunciato a protestare.
Sul parabrezza c’era scritto, a lettere cubitali, “ 5470- Dios es amor”. Dio è amore.

L'ANGOLO DI LETIZIA - a cura di portorecanatesi.it