...L’Argentina evoca oggi brutti sogni, per gli argentini l’Italia è diventata la terra promessa, nonostante i commenti offerti dai quotidiani locali. Nei taxi quando si accorgono del mio accento mi guardano con affetto dallo specchietto retrovisore e immancabilmente attaccano il discorso con la frase: “Italiana? Mio nonno era italiano, di un posto vicino Roma…”. Che ironia per l’Italia, essere il paese di cui si diventa orgogliosi solo lasciandolo, solo diventando emigrati....




Argentina allo Specchio.

Per una strana combinazione del caso sono arrivata in Argentina quando tutti stavano scappando e il Paese stava cercando di ricucire gli strappi di una crisi economica che lo ha trasformato in pochi mesi dalla terra delle speranze di inizio secolo, al simbolo di uno dei più clamorose bancarotte finanziarie del nuovo millennio. A quattro anni dal crollo, l’Argentina tenta di ricostruire la propria dignità, mentre l’Italia argina le perdite di un accordo sui tangobond che non ha lasciato spazio a troppe illusioni sulla possibilità di recuperare i 12 miliardi di Euro dei risparmiatori italiani, che si sono volatilizzati nel nulla nel caldo dicembre del 2001.

Sono arrivata in un momento di gelo nella storia delle relazioni diplomatiche tra Italia e Argentina, gelo che permette di osservare con distacco la fotografia di un rapporto ripulito dalle nostalgie degli immigrati e dalle fantasie che evoca nell’immaginario collettivo  la parola “Buenos Aires”.
Quello che resta oggi è un litigio tra parenti che in fondo si vogliono bene, lo dimostrano le centinaia di argentini di origine italiana che fanno la fila ogni mattina davanti al consolato, disposti a ore e ore di attesa pur di ottenere il passaporto italiano. Ma come in tutti i litigi, si dicono anche cattiverie che poi non sono altro che mezze verità. Ed è proprio qui che osservo divertita l’Italia allo specchio, a 11.000 km di distanza dal vecchio stivale.

Il 24 di aprile di quest’anno il Clarin, uno dei maggiori quotidiani argentini, tendenzialmente vicino al governo, scrive: “l’Italia è l’unico paese tra le grandi economie europee la cui produzione industriale registra tre anni consecutivi in recessione”- e più avanti - “Il modello dei distretti industriali, reti di piccole e medie imprese specializzate in un prodotto, che hanno fatto la fortuna del paese nelle decadi anteriori, sta attraversando un momento di grave difficoltà.

Non ci sono attualmente imprese leader che si facciano carico delle più piccole…l’investimento dello stato in ricerca, innovazione e sviluppo è ridicola e le spese per consumi sono diminuite del 4.5% negli ultimi tre anni. La quarta settimana del mese si registrano forti riduzioni nelle entrate dei supermercati. Si è ridotto il consumo alimentare.”

Silenzio doveroso. E’ questa l’Italia allo specchio? E’ curioso che tale immagine sia dipinta da un’Argentina che, nonostante i segnali di forte crescita economica, registra dati sconcertanti e contraddittori: secondo dati UNICEF (2003) il 60% dei minori argentini tra i 3 e i 5 anni vive al di sotto della linea di povertà, si rilevano alti tassi di ripetizione e di abbandono scolastico e la maggioranza dei nuovi posti di lavoro sono “in nero”, con salari inferiori al salario minimo previsto dallo Stato e conseguente assenza di prestazioni sociali.

Di fronte a questo panorama, cosa sanno gli argentini delle piccole famiglie italiane che hanno visto sparire in un giorno i risparmi di una vita? Cosa sanno gli italiani dei milioni di argentini che la crisi ha lasciato per strada - dei “nuovi poveri”, come li chiamano per distinguerli da quelli che poveri lo erano già quando gli altri prosperavano -, o dei bambini che di notte riciclano rifiuti che sono il prodotto e il profitto di un’economia sommersa, non tanto distante dalle realtà degli immondezzai dell’America Centrale?

La gente, ai due lati dell’oceano, ha perso il bene più prezioso, la fiducia nel futuro.
I politici non hanno una visione oculata, le scelte sono più il frutto di un’ansia viziata di approfittare delle occasioni del presente, senza essere dei visionari di lungo periodo.

L’Italia entra in una delle peggiori recessioni dal secondo dopoguerra, l’Argentina mostra orgogliosa statistiche di una crescita economica che è solo il risultato dell’inevitabile rimbalzo congiunturale, dopo aver toccato il fondo nel 2001.
I prezzi stanno già risalendo a ritmi vertiginosi senza trascinare con sé i salari, che rimangono ai minimi previsti nonostante le incessanti lotte sindacali e i blocchi imposti dai piqueteros – dimostranti disoccupati alla ricerca di un aumento del sussidio familiare – almeno una volta al giorno.

Per gli italiani l’Argentina evoca oggi brutti sogni, per gli argentini l’Italia è diventata la terra promessa, nonostante i commenti offerti dai quotidiani locali. Nei taxi quando si accorgono del mio accento mi guardano con affetto dallo specchietto retrovisore e immancabilmente attaccano il discorso con la frase: “Italiana? Mio nonno era italiano, di un posto vicino Roma…”. Che ironia per l’Italia, essere il paese di cui si diventa orgogliosi solo lasciandolo, solo diventando emigrati.

C’è un Tango famoso di Eladia Blázquez che fa più o meno così:
mi barrio fue una planta de jazmín, la sombra de mi vieja en el jardín, la dulce fiesta de las cosas más sencillas y la paz de la gramilla de cara al sol. Mi barrio fue mi gente que no está, las cosas que ya nunca volverán, si desde el día que me fui, con la emoción y con la cruz, yo sé que tengo el corazón mirando al Sur.
(Il mio quartiere era una pianta di gelsomino, l’ombra di mia madre in giardino, la dolce festa delle cose più semplici e la pace della gramigna di fronte al sole. Il mio quartiere è la gente che non c’è, le cose che non torneranno più, se dal giorno che me ne andai, con l’emozione e con la croce, so che ho il cuore che guarda a Sud.”)

I testi dei Tanghi racchiudono il senso delle nostalgie che legano l’Argentina all’Europa e che fanno di Buenos Aires una città-enclave occidentale, all’interno di un territorio troppo vasto e troppo vuoto, dove l’essere argentini non è ancora sinonimo di una chiara identità nazionale.

Bisogna fermarsi e cercare con gli occhi gli occhi dei vecchi, lì dentro c’è tutta la storia dell’Argentina, storia di andate senza ritorno, di fughe clandestine, di donne e di coltelli, storie di fame e di umiltà.

E Buenos Aires, la querida, porto di sogni e di illusioni brevi, Buenos Aires dei balli notturni e degli amori silenziosi, degli odori e dei colori di storie, di lingue gelose della propria origine e avide di una nuova identità.
Città che ha corteggiato orgogliosa la sue ferite più intime e lo canta nei tanghi più tristi, quando pensa che nessuno stia ascoltando le parole, ma solo il suono del bandoneón... Fisarmonica, strumento essenziale del Tango.

"La geografía de mi barrio llevo en mi, será por esto que del todo no me fui: la esquina, el almacén, el piberío los reconozco…son algo mío…Ahora sé que la distancia no es real y me descubro en ese punto cardinal, volviendo a la niñez desde la luz, teniendo siempre el corazón mirando al Sur”. ( La geografia del mio quartiere la porto dentro di me, sarà per questo che non me ne sono andato del tutto: l’angolo, il mercato, i ragazzini, li riconosco....sono qualcosa di mio... Ora so che la distanza non è reale, e mi scopro in quel punto cardinale, tornando all’infanzia dalla luce, con il cuore che sempre guarda a Sud.”)

Queste parole sono l’essenza di Buenos Aires, quando ti accorgi che è impossibile pensare a questa città come a una destinazione.
La nostalgia che pervade le strade, le insegne dei locali, le strofe dei tanghi famosi, ha il sapore di un passato glorioso ormai perduto, uno di quei viaggi che non hanno mai fine.


L'ANGOLO DI LETIZIA - a cura di portorecanatesi.it